I ricordi vogliono riaffiorare in un tempo stabilito da essi stessi, a noi è lasciato solo il compito di raccoglierli e dare loro nuova dimora.

lunedì 31 ottobre 2011

Basta poco


Centri commerciali



Una giovane coppia è seduta al tavolino vicino al mio nell’area di sosta dell’ipermercato Coop di Bologna, presso i distributori automatici di bevande.

Io non sono qui per fare la spesa. Mi trovo qui unicamente per aspettare mio figlio che è in un altro punto vendita per lavoro, all’interno del quale non c’era un’area dove potere sostare. Qui c’è  un discreto spazio predisposto.

Apro La gaia scienza sulle prime pagine. Cerco di leggere Nietzsche. Alle parole del filosofo si sovrappone un breve dialogo di due vicini.

Lei - Danno il lavoro anche a chi non è preparato. Non si capisce con quale criterio effettuino la scelta. Io sono fuori, comunque.

Lui - Il maestro unico non può essere la soluzione per la scuola primaria. Oggi sono necessarie molteplici competenze.

Lei - Il maestro unico, un vero maestro, lo può, secondo me. Io me ne sentirei capace.

Lui - D’accordo! Tu ti sei sempre interessata di tutto. Sei preparata di tuo, ma non tutti lo sono.

Cerca di consolarla e di incoraggiarla. La esorta a non deprimersi. Poi si alzano per andarsene. Io sollevo lo sguardo dalla pagina, riluttante ad essere sfogliata, ed incrocio il loro. Mi abbozzano un sorriso. Sanno che non posso non aver sentito la loro conversazione. Io ricambio. Li vedo bene ora, direttamente per in istante: vedo una coppia magnifica che la società mortifica anziché valorizzarne le potenzialità.

Ci scambiamo un saluto di cortesia.

La mia attesa si protrae.

Sono all’aforisma 6. Perdita di dignità.  Nietzsche dice: “La meditazione ha perso tutta la dignità della sua forma, si sono ridicolizzati il cerimoniale e gli atteggiamenti solenni dei pensatori e non si tollererebbe  più un uomo saggio d’antico stile. Pensiamo troppo rapidamente e strada facendo, mentre camminiamo, mentre attendiamo a negozi d’ogni genere, anche quando meditiamo su quanto c’è di più serio; abbisogniamo di poca preparazione, perfino di poco silenzio – è come se portassimo in giro nella testa una macchina dall’inarrestabile rullio, che neppure nelle condizioni più sfavorevoli cessa di lavorare. Un tempo lo si vedeva subito che uno voleva pensare – era l’eccezione! -, che voleva diventare più saggio e si preparava a pensare: si atteggiava il viso come per una preghiera e si tratteneva il passo: si stava per ore sulla strada, in silenzio, quando il pensiero « veniva » - su una o anche su due gambe. Così voleva « la dignità della cosa »!”

Stavo riflettendo sulla metafora di quando il pensiero veniva su una o anche su due gambe quando un uomo ed una donna anziani si avvicinano ai distributori automatici. Sembrano insieme per caso, incrociati alla Coop. Sono discinti. La donna, un involucro imbottito di indumenti sovrabbondanti e scarpe da ginnastica sformate dall’uso prolungato. Forse si conoscono già. Hanno una complicità sodale. La solidarietà della vecchiaia!

Lei - Ah!...io non riesco a far funzionare queste benedette macchine!

Appoggia la borsa sul tavolino dove anch’io ho addossato la mia borsa, la cioccolata calda e La gaia scienza dalla copertina gialla che spicca.

Cerca le monete da inserire. Vuole una lattina di coca cola.

Lui – Dia a me! Faccio io! S’ impettisce da uomo galante. Fa il cavaliere. Lui aziona le macchine come, del resto, ha sempre fatto nella sua vita di operaio. Ha una bella statura, dritta, energica. E’ vestito di grigio scuro. Giacca a vento ordinaria, pantaloni di tessuto di lana, usurati , non tengono più la piega: è quasi elegante nel suo contegno sobrio. Conosce la procedura per snidare quella merce: primo, inserire le monete; secondo, digitare il codice relativo al prodotto; terzo, premere il pulsante; quarto, prelevare la bevanda.

Digitare…maledizione! Digitare… Per la coca cola A67. Il cervello gli confonde il codice sotto gli occhi e le sue dita premono: 67 A; 7A6; 76A…maledizione e stramaledizione! Il congegno non funziona…come osa… fare questo a lui che ha trattato, per una vita, congegni d’ogni sorta! Si innervosisce, le mostra un pugno nerboruto, possente.

Non posso più stare solo ad osservare e con un tono di voce intenzionato ad essere il più calmo e dolce possibile, lo blocco: “ No, senta, ci riprovi – gli dico -, A 67: A…ssei…ssette…” Sembra che la mia voce quieti la sua agitazione. Intanto, l’anziana donna, interviene avvalorando la tesi del coevo e mi assicura che anche il giorno prima è successa la stessa identica cosa e che ha perso pure tutte le monete. Un  esplicativo tloch!, interrompe la spirale di congetture negative e la lattina di coca cola può essere rimossa dal cassetto di prelievo. I teneri anziani si felicitano ora risollevati del buon esito.

La donna infila la bibita in borsa, subito saluta e se ne va asserendo che, bene!, oggi è andata bene.

L’uomo si accinge ora a selezionare un caffè per sé.

Caffè: 35 centesimi. Mette due monete da 20 e preme il pulsante selezionatore. Subito esce il bicchierino con il caffè, ma non il resto di 5 centesimi.

L’anziano si siede al tavolo presso cui poco prima stava la giovane coppia, Le dimensioni dell’uomo occupano tutto lo spazio fra il tavolo e la macchina distributrice. Sembra un giocatore di carte di Cézanne, un po’ scomposto, messo di sghimbescio. Rivolto a me, che ormai ho lasciato in sospeso la lettura con il libro aperto all’ingiù sulla pagina del sesto paragrafo, disserta sui cinque centesimi di resto che il marchingegno tiene in sospeso fino alla prossima consumazione: lo spiega il tecnico della manutenzione in un breve comunicato incollato sotto il pulsante per il recupero monete. L’uomo mi dice che non sono nulla 5 centesimi! Anche ieri ha fatto così; se li mangia lei o quelli che vengono dopo di me. Questa macchina è strana! Potrei andare alle casse e chiederne la restituzione. Me li darebbero! Ma come si fa a chiedere 5 centesimi…non vado di certo! Non sono nulla cinque centesimi, asserisce impettito. Io annuisco. Lui abbassa gli occhi.

Io – Si!, ha ragione. Si tratterà di un guasto, di un malfunzionamento. Però dovrebbero ripararla non per i 5 centesimi, ma perché non è corretto.

Lui – Già…proprio così…non è giusto! E poi 5centesimi oggi e 5 centesimi domani …alla fine non è giusto! Ma come si fa a chiedere 5 centesimi alle signorine delle casse? Anche se ti li danno, senza fare una piega! Solo…andare a chiedere…figurarsi…5 centesimi!

Io sorseggio la mia cioccolata, lui il suo caffè. Riprendo in mano per un attimo il libro e lo richiudo introducendo alla pagina una matita per le sottolineature: sembra ora un oggetto fuori posto, in quel luogo benché non mi prenda la determinazione di riporlo in borsa. Non so per quanto dovrò ancora aspettare mio figlio e questo tempo mi può essere utile nel recuperare le letture che il gruppo di filosofia ha già letto e meditato negli incontri in cui io ero assente. Non so ben comprendere Nietzsche, ma questo punto 6 mi sembra accessibile.

Tento di riprendere la lettura ma, subito, arrivano due giovani donne, pure loro si mettono alle prese con monete, codici e pulsanti.

L’uomo – Ecco! Ha visto che i 5 centesimi sono usciti assieme al resto delle ragazze?

Io – Davvero! Vedo il display segnare l’azzeramento del credito e d’impulso, rivolgendomi ad una delle due, la informo che 5 centesimi del suo resto sono del signore, seduto.

Le due adolescenti sono palesemente di etnia rom. Una biondina che mi osserva apertamente ed una moretta che mi dà una sbirciata obliqua e una scrollata di spalle, come per dire che tutto il resto è caduto nelle sue mani , ciò prova che è tutto suo. L’anziano le spiega che sì, i 5 centesimi, sono nelle sue mani, ma solo per difetto di funzionamento del meccanismo. La moretta scrolla di nuovo le spalle, spavalda. Io mi indigno e replico che lei si sta tenendo 5 centesimi in più del dovuto: di fare i conti! Scrolla di nuovo le spalle e, nel movimento, rovescia parte della cioccolata calda sul pavimento. - Ben ti sta! – Le mando a dire, pentendomene nello stesso medesimo istante!

Riapro La gaia scienza e mi ci aggrappo come ad un’ancora di salvezza.

Riprendo la lettura. Le ragazze si allontanano verso le vetrate e confabulano fittamente fra di loro. Poi la spavalda mora se ne va e la biondina, la perdo di vista.

Leggo: “Si stava per ore sulla strada in silenzio quando il pensiero –veniva- su una o anche su due gambe. Così voleva la dignità della cosa”…

Penso che significhi che l’inclinazione al pensiero meditato da parte di alcuni uomini era considerato un valore e per questo rispettato. L’incontro con persone riconoscibili in tale atteggiamento dava modo di comprendere l’importanza del cerimoniale. Il cerimoniale si esprimeva attraverso un tempo, uno spazio e una forma a esso riservati. Il cerimoniale era il luogo di accoglienza per lo sviluppo del pensiero.

Oggi il pensiero non può occupare tutta la mente e fermarsi “su una o anche su due gambe”, cioè soggiogare le membra (più in generale il corpo) per ore al percorso meditativo, come richiederebbe la dignità del pensiero, della cosa.

La biondina rispunta, si avvicina. Vuole spiegarmi che nulla si può contro la macchina. Anche a lei e alla sua amica e capitato ieri e l’altro ieri, di non aver ricevuto il resto. Vuole soprattutto affermare che loro non rubano.

Mi faccio l’idea che si siano intimorite del mio anatema: è nota la loro natura superstiziosa. Sono molto intuitivi e la biondina non fa eccezione: ha capito che io me ne frego della superstizione; ha capito anche che non ho pregiudizio nei suoi confronti.

Riprendo il discorso su ciò che sarebbe giusto in questo caso, e cioè riconoscere all’uomo il resto che gli era dovuto per riparare del difetto meccanico.

Non importa –dico- se in passato avete subito lo stesso danno, ora tu e il signore vi trovate di fronte e puoi riconoscere il gesto giusto da fare: non per il valore pecuniario ma per il valore morale: sarebbe un gesto di rispetto e di solidarietà…

La biondina mi guarda con due occhi molto incuriositi: non so se mi abbia compresa veramente. Non fa nessun gesto solidale. L’uomo se ne va speditamente accennando, verso di me, un saluto con il capo. La ragazza prende il suo posto al tavolo di fianco al mio.

E’ curiosa inoltre di sapere cosa leggo in quel libro giallo.

Servitasi di un tè, con il bicchiere di plastica riempito sino all’orlo, lo teneva in mano  in attesa che intiepidisse un po’. Mi guardava impaziente di molte domande.

-          Cosa leggi in questo libro giallo?

-          Non è un libro giallo, di giallo ha solo la copertina.

Silenzio…

-          Che libro è?

-          E’ un libro di filosofia.

-          Cosa c’è scritto?

-          Cose complicate da capire.

Silenzio…

-          Perché lo leggi?

-          Se riesco a capirci qualcosa potrò ragionare meglio su cosa c’è da capire del mondo.

Silenzio…

-          Continuo: ci sono persone che lo studiano un libro così con un insegnante che lo ha studiato prima di loro e insieme ricercano il significato racchiuso nei pensieri descritti dall’autore-filosofo.

Silenzio… Lo sguardo è divenuto critico, sembra aver preso della distanza.

-          Continuo per dissipare la sua perplessità crescente. Intuisco il suo timore di trovarsi alla presenza di una mentecatta, perciò cambio registro.

-          A te piace leggere?

-          Si, quando sono a scuola.

-          Vai a scuola?

-          Ho ancora un anno da fare.

-          Oggi non ci sei andata?

-          No!

-          Perché?

-          Sono venuta qui.

-          Frequenti qui a Bologna?

-          Si… a volte si, ma anche a Messina.

Ora il suo tè dovrebbe essersi raffreddato. Ne prende un sorso. Passa il liquido da un latro all’altro della bocca. Dopo averlo trattenuto fra il palato e la lingua, come in attesa di prendere la giusta mira, lo sputa  di un fiotto rapidissimo nel bicchiere.

-          E’ ancora troppo caldo il tuo tè?

-          No!

Continua a scrutarmi. Sorseggia di nuovo la sua bevanda e risputa con lo stesso impeto nel rimanente tè. Dev’essere nervosa!

-          Cosa fai qui? Mi chiede.

-          Aspetto mio figlio che è qui per lavoro.

-          E dopo, dove andrete?

-          Torneremo a casa.

-          Dove abiti?

-          A Venezia.

Silenzio…

-          Tu dove abiti?

-          Nel campo qui dietro, a volte a Messina e a volte in Francia… In Francia ci vive il mio fidanzato. Il prossimo anno mi sposo.

Ora sono io a sgranare gli occhi!

-          Quanti anni hai?

-          Tredici.

-          Non devi finire la scuola?

-           Sì!, ma anche mi sposo.

-          Andrai in Francia quando ti sposi?

-          Andrò anche a Messina. Mi piace Messina, c’è caldo e c’è il mare.

-          La Sicilia è molto bella.

-          Non sono mai stata in Sicilia.

Silenzio… il mio.

-          Non ti hanno mai insegnato a scuola che Messina è un luogo che si trova in Sicilia? Come altre cittàdenominate Palermo, Trapani, Agrigento, Ragusa, Catania…

-          Catania, sì! Ci sono stata.

La ragazza sorseggia e trangugia. E’ di nuovo a suo agio.

-          Così  ti sposerai… Quanti anni ha il tuo fidanzato?

-          Sedici.

Silenzio…ancora il mio.

-          Io voglio aspettare, ma lui non vuole.

Con occhi furbi e divertiti, mi fa sapere che lui vorrebbe già fare un bambino.

Silenzio…sempre il mio.

-          Io voglio aspettare di finire la scuola.

-          Cosa dicono i tuoi genitori?

-          Va bene.

-          Tu non credi di essere ancora troppo giovane?

-          Non so. Il mio fidanzato vuole così… Dimmi cosa dovrei fare? Mi chiede dubbiosa.

-          Aspettare! Siete due ragazzini.

-          Io vorrei aspettare e lui no, ma ho paura di dirlo.

-          Fatti aiutare dai tuoi genitori.

Silenzio…di entrambe.

-          Mi dai un po’ di soldi che telefono in Francia?

Tiro fuori delle monete da 50 centesimi, ne ho un numero più che sufficiente. I suoi occhi ora brillano di gioia e… sparisce correndo.


sabato 29 ottobre 2011

La Bimba Nara di F.Fusetti

Prefazione


L’unica profonda sensazione di appartenenza alla mia terra, si manifesta ogni qualvolta imbocco la strada in direzione di Borgo Polesinino, presso la foce del ramo del Po della Donzella.


Sento che una grande pace si profonde fra tutti i campi arati  della vasta landa quasi disabitata, dove l’aria è pregna di luce, di colore, di rumori che dilatano in un ambiente denso di umidità.


E’ un posto dove l’energia vitale può essere scambiata: posso rilasciarla alle zolle, le quali, attraverso alchimie misteriose, la restituiscono quasi purificata.


Sento che a questo ambiente posso affidarmi. Sento le resistenze allontanarsi e le paure scomparire. Il ritmo della natura è in armonia con il ritmo del mio cuore e posso finalmente abbandonarmi, poiché qui c’è uno spazio riservato a me da sempre e, forse, per sempre.



 


Brevi cenni storici  


    
Una grande alluvione prodotta dalla rotta del Po a Ficarolo nel 1150 è l’ evento che cambia radicalmente l’assetto idrografico del Delta e che avvia una serie di mutamenti morfologici che ci conducono all’attuale configurazione territoriale.


Le acque alluvionali, di quella rotta, scesero al mare Adriatico attraverso il ramo delle Fornaci che, per effetti naturali, attribuibili alla forza corrosiva delle acque, incrementò notevolmente la sua portata, diventando il ramo principale del Delta del Po.  Un considerevole costante apporto di depositi fluviali provocò, nel corso degli anni, difficoltà di navigazione alla flotta della Serenissima Repubblica. Le torbide del Fornace, depositandosi, colmavano i bassi fondali costieri della laguna veneta, tanto da indurre i Veneziani alla titanica deviazione del corso d’acqua.


Dopo lunghe trattative diplomatiche con  i confinanti Duchi  d’Este prima, e con lo Stato Pontificio poi, si dette l’avvio al manufatto che venne completato nel 1604. Un canale lungo sette chilometri, denominato Taglio di Porto Viro, fu realizzato escavando un letto artificiale di congiunzione fra il Po delle Fornaci nei pressi di Porto Viro (Cason Malipiero) e la bocchetta del Po di Gnocca o della Donzella qualche chilometro più a Sud.


Il nuovo alveo a Sud-Est, ed il Po di Goro a Sud-Ovest, provvidero velocemente in virtù dello stesso fenomeno di colmata, alla formazione di zone paludose aggettanti il litorale, formando i “Polesini”, territori via via acquistati dalle famiglie patrizie e borghesi della Repubblica Veneta che in quelle lande aveva giurisdizione.


E fu così che si formò l’isola di Ariano Polesine la cui parte meridionale risale ai primi anni  del Settecento ed è il luogo dove si svolge la vita della “Bimba Nara”.

 


La bimba Nara


Le piogge autunnali sono cadute copiose e, come da sempre, il Po s’ingrossa fino a raggiungere l’orlo delle sue sponde.


L’acqua è scura e piena di detriti legnosi portati in giù dalla piena. Si sa, alcuni ci arrivano persino dal Piemonte, perché il Po nasce là, dal Monviso: l’ha detto la maestra che sa un mucchio di cose.


A questo stava pensando Nara, seduta sul ciglio dell’argine con le gambe rannicchiate, perché, se le avesse distese, avrebbe rischiato di inzupparsi le scarpe. Ne avrebbe avuto una voglia matta, lei era molto attratta dal fiume, ma si tratteneva per non inquietare la madre. Si dava molte limitazioni per non inquietare la madre.


Vestita di un gonnellino di panno nero, sorretto da due bretelle incrociate sul dorso, dello stesso tessuto, sopra un maglioncino chiaro, se ne stava là per ore, rivolta verso il fiume, affascinata da ciò che in esso avveniva.


C’era vita in quello specchio d’acqua che scivolava lungo il fianco a Nord-Est di Polesinin. Quel giorno tutti gli uomini del paese, si trovavano in barca, con le proprie donne. Gli uomini remavano in piedi e le donne erano protese, carponi, a prua del “batlin”, munite di un arpione, nell’atto di agganciare la legna. “Facevano legna” per l’inverno imminente. Legna  che, generosamente, la piena autunnale regalava.


Nara, là seduta con i gomiti sulle ginocchia e le mani a sostegno del viso, osservava e rifletteva. Avrebbe voluto, anche lei, trovarsi su una di quelle barche nere di pece, ma doveva aspettare di crescere. Era quello un compito riservato agli adulti: padri e madri che avevano la responsabilità del benessere dei propri figli. Quella legna era buona per il focolare.


Era la gente del Po. Uomini e donne con i loro indumenti di colore grigio o nero e con la testa sempre protetta per difendersi dalla grande umidità: gli uomini con cappelli di panno e le donne con fazzoletti di lana legati dietro la nuca.


Nara si sentiva un po’ malinconica: il colore melmoso dell’acqua, il grigio del cielo con il verde-olivastro della legna bagnata e nell’insieme quell’odore di bagnato, difficile da definire, penetravano nella sua mente e nel suo cuore.


L’atmosfera era intrisa di una luce soffusa e radente, la stessa che permette una visione intatta dei contorni e dà l’illusione che le cose e le persone siano leggere e si muovano senza peso, né fatica, in uno scenario di evoluzioni lente, ritmate, sullo scorrere dell’acqua, come il suono di un vecchio “blues”.


Nara non si rassegnava a quella esclusione, l’attesa le sembrava troppo lunga e credeva di perdere una grande occasione.


Era l’anno 1950.





* * *





L’inverno  lungo e freddo  si  affacciava  alle  porte di Polesinin, portando nebbia e brinate, tosse e raffreddori… e non solo.


Nella grande casa ad un passo dal fiume, gli stanzoni stagnavano in un freddo umido. Quando la famiglia se ne lamentava, Umberto, il padre  di Nara sosteneva con convinzione, che la situazione era irrisolvibile in quanto essa dipendeva esclusivamente  dal clima che a sua volta dipendeva dal Padre Eterno. La costruzione era dotata di muri spessi, doppi, a differenza delle casupole edificate molto più tardi con muri esili ad un solo mattone.


- Quest’ultime sì, risentono molto della temperatura esterna e dell’umidità!


- Lo sapete che questa casa, in origine, è stata un granaio dei Signori Sullam? -  continuava il padre -  che l’ hanno acquistato, pensate, nel lontano 1847 assieme alla Palazzina, che loro abitavano quando venivano per seguire il lavoro nella tenuta. La tenuta, che si chiamava allora Palazzina come la casa padronale,  sono stati loro a bonificarla, così come hanno fatto, con i Ravenna, nella zona di Ivica. Hanno costruito nuovi argini e nuovi scoli, senza i quali i “lavioni” o alluvioni da Po, prodotte dai continui depositi fluviali, sarebbero rimaste sempre acquitrinose e buone solo a fornire canne che pur servivano per costruire le case dei braccianti dell’epoca, ma delle quali c’era sovrabbondanza. I canneti palustri si sperdevano, a vista d’occhio. Nel sentire che c’era stato chi se la passò peggio di loro, Nara, il fratello e la mamma, si zittirono.


- Ad Ivica, i Sullam e i Ravenna, hanno costruito un vero villaggio dando lavoro a circa mille persone fra stanziali e avventizi.  Impiantarono ettari di risaia che dava cibo ai braccianti e profitto ai padroni. Diversi proprietari si sono avvicendati in questi stanzoni – continua a raccontare Umberto rivolto ai figli -, la mamma lo sa! Oltretutto, durante l’occupazione tedesca,  la casa è stata requisita  da una squadra che la lasciò in condizioni disastrose, anche se poi, finita la guerra, l’abbiamo risistemata e riadattata ad accogliere due famiglie.


* * *
Il piumino d’oca adagiato sopra la cassapanca e due sedie come sponda formavano il lettuccio di Nara, che s’era presa una broncopolmonite.


Le stanze al primo piano erano senza riscaldamento. La madre le aveva perciò trovata quella sistemazione, nella cucina, vicino al focolare.


Nara, dopo aver superato il periodo critico della malattia, era felice per la nuova sistemazione. La cucina era il luogo più frequentato e l’unico riscaldato di quella povera casa di campagna con il pavimento in mattoni, i muri bianchi di calce ed un grande camino con il paravento vicino ad una stufa a legna.


La sua giornata scorreva lenta, in quella temporanea infermità, ma l’andirivieni quotidiano la distraeva. Al centro della stufa veniva appoggiata, dopo aver tolto alcuni cerchi, una grande pentola con il fondo fuligginoso, nella quale sarebbe stato cotto il minestrone.


La madre passava ogni tanto per alimentare la stufa e controllare la cottura.


Gli avvenimenti si ripetevano con un preciso rituale: alle ore undici e trenta si apparecchiava, alle dodici ci si sedeva a tavola e tutti erano sempre presenti, puntuali, come nelle famiglie di antica tradizione.


Era quello un evento importante nel corso della giornata: ci si ritrovava! A volte l’incontro era chiassoso, a volte silenzioso, interrotto solo da brevi tintinnii di stoviglie.


C’era una buona abitudine in quella famiglia: ognuno comunicava agli altri i propri spostamenti; questo non per ottenere il consenso, ma per essere reperibili in caso di necessità. Dopo mangiato, chi diceva: vado a letto; vado alla “piarda”; vado in bicicletta sull’ara; vado ... vado.


La madre rimaneva.


Per lavare i piatti usava un rudimentale ripiano chiamato “cavalletto” che il nonno Selvino aveva costruito espressamente per lei, in quanto soffriva di mal di schiena e non poteva stare curva.


Un aggeggio che le permetteva di stare in posizione eretta, molto meno faticosa.


Nara era orgogliosa che la madre usufruisse di quel insolito attrezzo e  le piaceva raccontarlo in giro. Le pareva che tutti fossero interessati all’ingegnosità del nonno e partecipassero alla sua gioia: non conosceva ancora il sentimento dell’invidia. Lei non la provava; perciò non si rendeva conto di dover tacere certi fatti per non suscitarla negli altri.


Il suo paese era molto povero. Esisteva ancora una famiglia che viveva in un “casone”: tavole per pareti e tetto di canne.


Da quel letto improvvisato, Nara viaggiava fra i ricordi.


Una volta l’avevano portata a villeggiare all’isola dei gabbiani. Navigarono con la “barca a vela”, ma quel giorno non c’era vento. Lo zio e la madre, a turno, con una corda tiravano la barca dalla riva lungo il Po, mentre l’altro remava.


Fu un viaggio massacrante.


Raggiunsero miracolosamente la foce e, attraverso un canale trasversale fra i canneti, la spiaggia.


Loro non andavano certo per divertimento: dovevano fare le sabbiature per curare i dolori alle articolazioni e i ragazzi per scongiurare il rachitismo, molto frequente in quei tempi.


Lo zio costruì un “casone” tutto di paglia con lo scopo di riparare i suoi cari dall’umidità notturna. Non pioveva mai in quel periodo: si era nel mese di luglio. Ma una notte piovve molto e le canne non trattennero l’acqua. Fu un’esperienza raccapricciante, perché lo zio, per tamponare il gocciolamento, pensò di mettere sul tetto delle alghe che il mare aveva abbandonato con la bassa marea, senza sospettare che esse potevano essere sede di grossi lumaconi e vari vermi della spiaggia. Nara ed alcuni cuginetti si dovettero avvolgere completamente, anche il capo, con le lenzuola, come piccole mummie, mentre le loro mamme rimasero sveglie, a sorvegliare gli intrusi, per tutta la notte.


L’indomani un sole splendido li ritemprò: ognuno poté giocare sulla sabbia candida con il petto rivolto al sole per “asciugare le ossa” e ben riparati nei loro costumini di lana rossi e blu a righine da marinaio, in attesa del bagno di mezzogiorno.


Non sempre, la bimba si sentiva consolata dai ricordi, benché avesse una grande capacità di renderli piacevoli attraverso la fantasia.


Nelle prime ore del pomeriggio era assalita da un’enorme insofferenza. Con gli occhi puntati verso la porta, aspettava impazientemente che si aprisse. La cuginetta, Tilde, le aveva promesso una visita. Quando la vedeva comparire si sentiva presa dall’eccitazione: finalmente avrebbe potuto giocare. Avrebbero giocato a dama od a briscola, come facevano gli uomini nell’osteria di zia. Non sempre, però, la cugina amava trattenersi; spesso faceva una breve apparizione che procurava a Nara una profonda delusione: non avrebbe giocato! E così per quel giorno aveva aspettato invano. Presto, Tilde, avrebbe lasciato la casa dei nonni per raggiungere i genitori immigrati in Piemonte e non si sarebbero più riviste tanto facilmente. Era un periodo in cui molti lasciavano il Delta per trasferirsi in quella regione, dove la vita sembrava più facile perché c’erano le industrie ed il Po era più piccolo, non straripava, né rompeva gli argini. Anche lo zio Giuliano ci viveva da qualche anno, ma non gli piaceva quella terra e desiderava rientrare a Polesinin


* * *


Lo zio, diventava di giorno in giorno sempre più taciturno. Eppure le cose andavano delineandosi: a lui sarebbe toccata la metà della casa compresa l’osteria, la stalla, il ricovero per il maiale, l’orto ed un pezzo di frutteto dietro la casa.


Umberto e Guglielmo, gli altri due fratelli, avevano cercato di fare del loro meglio  nella spartizione, cercando di accontentare il fratello più giovane.


Guglielmo, il nonno di Tilde, faceva il muratore e si era costruito una casa a Ca’ Tiepolo dove, in quei giorni, si stava trasferendo, lasciando la casa libera per Giuliano.


Umberto ospitava il fratello Giuliano finché tutti i cambiamenti non si fossero completati.


Doveva arrivare, con tutto il mobilio, il resto della famiglia da Rondello di Torino.


Nara sentiva i genitori parlarsi con toni preoccupati: “Chissà mai perché si ritira subito nella sua stanza e non rimane in nostra compagnia?”


Provarono a chiedergli una spiegazione; furono rassicurati: non c’era nulla di cui preoccuparsi, le cose andavano bene.


Ma loro avvertivano che qualcosa non funzionava; qualcosa che non lasciava presagire niente di buono. Erano molto inquieti.


Nara era affezionata a quel suo zio che veniva dal Piemonte; alto, bello, biondo: il migliore fra tutti gli uomini di sua conoscenza.


Lo zio Giuliano sapeva andare a cavallo, lo aveva appreso da nonno Duilio e fu per questa sua abilità che finì sotto gli Inglesi come responsabile di scuderia. Fu grazie a ciò che riuscì a passarsela alla meno peggio e tornare, finita la guerra. Tornò con il desiderio, covato per tutti quegli anni, di saldare un vecchio debito con la Contessa che, al castello della Mesola, gli aveva mollato un ceffone durante un’adunata di piccoli balilla. Lui aveva osato risponderle per le rime. Prima di raggiungere casa, dopo tutto quel tempo, la cercò al castello, per ritornarle quello schiaffo ingiusto ed umiliante, per pareggiare il conto. Ma lei non c’era più, forse era fuggita da qualcosa di ben più pericoloso.


Nara era innamorata di quello zio alto, bello, biondo e fiero!


Quel giorno, non si dava pace. Provò lo struggimento dell’impotenza.


Come sempre, era andata a bussare alla porta della sua stanza per avvisarlo che era ora di alzarsi.


Udì che era già in piedi. Fece per entrare, ma la maniglia non si mosse. Nara non capiva. Lo zio non aveva mai bloccato la maniglia.


“Nara vai giù! Ho da fare !” le disse:


“Ma perché non posso stare con te finché tu non sbrighi le tue faccende?”.


“Ti dico di andar giù!” le rispose lo zio con la voce a metà alterata ed a metà roca dal pianto.


“Io non vado, sto qui!” replicò risoluta la piccola.


Si sedette sul gradino della porta chiusa appoggiandovi la schiena; il più vicino possibile a quel suo zio disperato, che non voleva essere aiutato da nessuno o che nessuno avrebbe potuto ormai essergli di aiuto. Passarono lunghi minuti: un tempo incommensurabile. Dopo diversi richiami la porta si aprì.


“Ho finito!” disse:


Le prese la mano ed insieme scesero quella scala di legno giallastra di varechina.


Lo zio Giuliano ebbe un sorriso per tutti i parenti, mentre li salutava agitando la mano. Inforcò la sua bici e pedalando energicamente si allontanò veloce, lungo la strada sull’argine, fino a scomparire in un puntino.


Riemerse dal fiume dopo una settimana.


Legato alla bici il suo corpo rimaneva sotto la superficie, solo un braccio sporgeva, alto, con il pugno chiuso!





* * *





La jeep dei Carabinieri correva sulla strada arginale tagliando l’orizzonte. Veniva per i fratelli di Giuliano, perché una persona maligna insinuò che vi fossero state delle divergenze fra loro. Guglielmo e Umberto salirono sulla camionetta che li portò in caserma a rilasciare la propria dichiarazione sui fatti e firmare il verbale.


Nara ricorda lo zio Guglielmo con una gamba penzolante all’esterno del mezzo, il capo chino sul petto, fiaccato dal dolore e da quella ulteriore prova ingiustificata. Di fronte a lui, il padre che trovò l’energia di fissarla per un attimo, e sorriderle sicuro; sicuro della sua buona coscienza.  La bambina ebbe il terrore di non rivederli mai più quando la jeep scomparve imboccando una discesa, ma dopo qualche ora furono di ritorno e l’incubo per lei finì.





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Il 4 aprile 1951, nasce Cecilia la sorella di Nara. La notte precedente l’evento, la bambina era stata accompagnata da zia Ninuccia, per non essere d’intralcio durante il travaglio del parto.


Fu lei a darle la notizia, informandola che d’ora in avanti le sue gonne sarebbero state sempre più corte affinché anche la sorellina avesse di che vestirsi.


Anche ad Ernesto avrebbero accorciato i pantaloni? Volle subito sapere?


No, gli indumenti del fratello non avrebbero subito cambiamenti: lui era un maschio.


Bella terapia d’urto contro la gelosia!


Nara non era gelosa di indole, ma quelle provocazioni la resero inquieta. Chiese ulteriori spiegazioni che suscitarono l’ilarità di parenti e amici. Qualcuno, sadicamente, disse che ora tutto andava alla sorellina e a lei non sarebbe rimasto più niente. Nara non volle  crederci, ma era molto confusa. Doveva lasciar scorrere il tempo, pensò, per vedere come si sarebbero evolute le cose.


A cinque anni un bel pianto liberatorio sistemava molte cose, ed era ciò che Nara faceva copiosamente. Già allora, doveva contare unicamente su se stessa per non cadere nelle trappole degli adulti. L’unica loro frase consolatoria era: “Ma va, sciocchina, non crederai certo a queste stupidaggini?”.


Con il tempo constatò che le gonne non vennero accorciate anche se naturalmente l’orlo si allontanava dal ginocchio mentre lei cresceva.


La sorellina era davvero carina. Aveva capelli neri neri, la carnagione chiara ed una boccuccia rosa ben tornita: sembrava una bamboletta.


Nella credenza c’era sempre una misteriosa scatola di metallo a colori pastello, con al centro la parola “MELLIN” scritta a caratteri cubitali di color arancione. Era, quello, un oggetto prezioso, proibito a Nara, conteneva cibo per la neonata: quattro biscotti per poppata che la madre prelevava di volta in volta. Lo scrigno era visibile attraverso il vetro dipinto della credenza. Sul vetro era rappresentata una casetta dal tetto rosso vicina ad un albero con una grande chioma marrone ed il tronco nero. Nei momenti di solitudine Nara si soffermava ad osservare il bauletto prezioso dietro il vetro dipinto.


Ad un tratto, come in uno schermo cinematografico, una scena cominciava ad animarsi.


Oltre il tetto rosso s’intravedeva un lungo viottolo che segnava la sommità di un colle. Ai suoi lati, prati ondulati smeraldini si susseguivano in dolci declivi fino a scomparire all’orizzonte.


Dietro la casetta vibrava una luce sfavillante ed il luogo era popolato da tanti piccoli omini intenti a svolgere mansioni quotidiane: chi infornava il pane, chi faceva il bucato, altri arrostivano la cacciagione.


Sopra quei prati verdi, nuvole di farfalle multicolori delineavano il cielo di mille ghirigori.


Altri omini, a naso insù, coloro che non erano troppo immersi nella vita quotidiana, quelli che sapevano trascendere il pensiero, avevano scorto la meraviglia del creato.  Fu proprio allora che Nara vide le farfalle, nel cielo terso, catturare la luce del giorno e avvolte di bagliore, attirare gli gnomi all’orizzonte, bucare la volta celeste e collocarsi fra gli astri del firmamento. Nara li riconosce, nelle nottate limpide perché brillano più degli altri, là, dietro il tetto rosso della vetrina.


- Nara, cosa stai facendo?


- Nulla mamma, guardavo le stelle.


- Ma... se è giorno! Vieni ad aiutarmi ad arrotolare la fascia di tua sorella.


- Voglio farlo io, da sola!


- Sei sicura di esserne capace?


Nara si cimenta, conosce il procedimento: si incomincia dai lacci ripiegandoli bene, poi si continua avvolgendo la fascia sul dritto facendone un grosso rotolo ben stretto con il bordo allineato.


Dio mio, com’è difficile! Se ne dovesse uscire un cono a spirale, sono spacciata. –Pensa!-


Nara è agitata, ci impiega abbastanza tempo e non è sicura di superare la prova.


- Ecco la fascia!


- Brava! Ci sei riuscita.


La mamma mi ha detto brava, - disse fra sé -, forse vuole bene anche a me.





* * *





Arrivano a Polesinin nella tarda mattinata di una giornata estiva, Ugo sbuca dal telone sul retro del camion che ha trasportato tutto ciò che, lui e sua madre, possedevano in Piemonte. E’ biondo, slanciato e delicato nei tratti del volto. E’ molto diverso dai ragazzi del posto, quasi tutti mori e tarchiati. Attraverso i modi educati  del cugino e da ciò che le racconta, Nara si fa un’idea singolare del Piemonte. In quel luogo ci sono persone cortesi con la gente immigrata, come lo sono con i compaesani di nascita. La mamma di Ugo, Marianna, era salutata con “Cerea, Madamin!” che significa “Riverisco, mia Signora”.


Alla zia, un falegname  ha costruito una credenza con le porte ed il frontespizio intarsiati. Gli intarsi rappresentano un putto e tante rose: “Un artista” lo definisce zia Marianna quando parla di lui! In quel luogo tutti erano cortesi e discreti, non s’impicciavano dei fatti altrui. 


Lei si trovava bene a Rondello, Pure Ugo ci viveva volentieri perché sognava di diventare disegnatore alla Fiat e farsi un brillante avvenire, ma le cose sono andate diversamente.


Con la madre prende possesso dell’eredità spettata al padre, in cui è compresa l’attività di oste.


Fra le belle cose giunte dal Piemonte c’è una carabina. Nara non ne aveva mai viste prima





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Il frutteto era pieno di meli con i frutti quasi maturi. I ragazzi di Polesinin, che di frutta ne vedevano gran poca sulla loro tavola, erano spinti dal desiderio, ed  a volte dai familiari, a rubarne qualche chilo prima della raccolta. I furti  avvenivano durante le prime ore pomeridiane, quando gli adulti si concedevano un breve riposo. Ugo ed Ernesto, che avevano solo un anno di differenza e si ritrovavano con gli stessi interessi, escogitano presto di sorvegliare il frutteto con l’ausilio della carabina. Giocano ai “Rangers” americani, come nei fumetti di Tex Willer, così avrebbero catturato i raccoglitori di frodo. Un pomeriggio anche Nara è ammessa alla “battuta di caccia”.


Tutti e tre si acquattano nell’erba alta, fra i rami pendenti dei meli ed aspettano. I ladruncoli arrivano camminando bassi, a gambe leggermente piegate per non farsi notare in lontananza. Il patto stretto dai tre cugini era di stare in assoluta immobilità fino al “via” di Ernesto. Ugo è tentato di esibire anzitempo la sua bellissima carabina, intimando “l’alto là!” Ma Ernesto li vuole prendere con le mani nel sacco perciò, prevenendo la mossa di Ugo, avvicina il dito indice al labbro e “ssst” sibila leggermente. Aspettano che le borse siano quasi piene e …Via! Grida Ernesto a voce spiegata! Alto là! Incalza Ugo spianando il fucile!


Ah!… Aah!…Aaah!…Urlano spaventati i ladruncoli lasciando cadere tutta la refurtiva! Poi, riprendendosi: scappa!  Scappa! Si dicono  l’un l’altro, dileguandosi.


A quel punto Nara si impressiona e, piangendo di rabbia, accusa il fratello ed il cugino di essere degli assassini, di volere uccidere gli altri ragazzi. A nulla valse quel giorno la giustificazione che era tutto uno scherzo intimidatorio e che il fucile era scarico.





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Era d’abitudine la toeletta serale. Si indossavano indumenti freschi di bucato che, assieme alla frescura della sera, davano sensazione di grande benessere e poi si poteva stare fuori, in cortile.


C’è da dire che fra l’osteria della zia ed il negozio di alimentari del padre, a quell’ora ancora aperto, c’era sempre un via vai di persone, fra cui molti coetanei di Nara.


A volte, qualche volontario organizzava, o meglio improvvisava, delle feste, per riassaporare il clima degli anni antecedenti la guerra.


Poteva trattarsi di una serata di ballo all’aperto, in cui Luigi detto “Bociaccia” per la sua figura rotonda, suonava ad orecchio, la fisarmonica.


Altre volte, lo spiazzo diventava un teatro all’aperto quando un burattinaio itinerante, che diceva di chiamarsi Fasolin vi giungeva, portando con se tutto l’occorrente per le rappresentazioni.


Era conosciuto anche come “Brighella” perché confuso con la maschera bergamasca che amava rappresentare.


L’organizzazione prevedeva che chi volesse un posto a sedere avrebbe dovuto portarsi la sedia da casa.


Quell’artista di  strada aveva una debolezza e per questo veniva spesso rintuzzato.


Al termine dello spettacolo s’immalinconiva e si lasciava spesso andare con il bere.


- Brighella ti ricordi cosa fa Fasolin prima di addormentarsi?- lo provocavano.


Il burattinaio faceva rispondere alla maschera bergamasca:


- Brighella ha una memoria portentosa, cosa vuole insinuare quell’omuncolo tra la folla?


- Ah, ah, omuncolo a me!- ribatteva lo spettatore petulante:


- Perché  non ammetti che invece di comportarti come si conviene, bevi come un porcello tutte le sere!-


A questo assalto moralistico e inopportuno, gran parte della platea insorgeva indignata.


- Zitta linguaccia! - Ammonivano alcuni. - Non sono affari tuoi!- Si sentiva proferire da altri. - Silenzio! Silenzio! Ripeteva il burattinaio. – Che diammine! Siamo a teatro! Si deve ascoltare!


Ma tutti volevano dire qualcosa: chi pro, chi contro; dando vita ad uno scenario agitato da Po in piena in balìa dello sciroccale .


C’erano sere in cui Fasolin, offeso, tirava su baracca e burattini caricandoli sulle spalle e, con sottobraccio la sua sedia, si ritirava , lasciando il popolo di Polesinin a sbollire piano piano.


In altre, riusciva a controllare la situazione. La rappresentazione si trasformava, allora, in pura commedia dell’arte.


Nara era sempre molto ansiosa di scoprire come si sarebbe svolta la serata.


Quando, però, vedeva Brighella abbandonare l’arena sconfitto, curvo sotto il peso dell’attrezzatura, provava una sorta di amore per lui: prendeva a cuore la sua scontentezza e provava disappunto per la volgarità delle persone.


Egli poteva avere, suppergiù, una quarantina d’anni, capelli scuri, barba folta.


Era basso di statura, appesantito da una leggera pinguedine.


Vestiva con vecchi indumenti: camicia a quadrettoni, pantaloni sorretti da un laccio di canapa.


Stranamente Nara non ricorda sporcizia, né sgualciture nell’abbigliamento di quell’uomo.


Lui era lindo.


Recitava le gesta di Orlando, dei Cavalieri della Tavola Rotonda, Giulietta e Romeo. La Serva Padrona, con quel teatrino in cui faceva miracolosamente tutto da solo.


Si era nell’immediato dopo guerra, tempo in cui la povertà regnava sovrana: non c’era nulla di nulla! L’attore si esibiva per racimolare poche lire.


Dormiva in una specie di capanno e, per via del vino e dell’irrispettosità di alcuni, si dimostrava abbastanza scontroso.


Nara era incaricata dal padre di portargli un tegamino di cibo caldo all’ora di pranzo. Come primo approccio riceveva un netto rifiuto:- Non voglio niente, ragazzina, porta via! Erano le sue parole.


- Non posso, si giustificava Nara, i miei te lo mandano con il cuore e non per farti la carità! E poi se lo porto indietro mi sgridano! - Così lui si arrendeva ed accettava.


Solitamente si tratteneva per una settimana.


Le grandi e piccole donne di Polesinin erano affascinate dal teatrino: si davano appuntamento, si facevano belle, le amiche si presentavano per tempo, con le rispettive sedie, per occupare posti vicini.


Le donne a destra, gli uomini a sinistra, come in chiesa la domenica.


L’illuminazione era data da due lampade a petrolio appese a pali di cinta e del fascio di luce che usciva dalle imposte dell’osteria della zia.


Brighella si metteva a lato di queste fonti luminose lasciandosi alle spalle, come sfondo, il buio della notte.


C’erano momenti di forte partecipazione emotiva: la voce del burattinaio era vibrante, l’anima della platea palpitante. Una bella energia si librava nel silenzio della notte. Le persone, in quei momenti, erano così immerse in un’atmosfera sognante, tanto da non accorgersi  che Fasolin aspettava il suo applauso finale!





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Ad Ottobre riaprono la scuole elementari. I genitori di Nara, Beatrice e Umberto, ospitano la signorina Elda, una maestra che insegna a Cà Lattis, in cambio di un po’ di aiuto ad Ernesto, che frequenta la scuola media di Cà Tiepolo, nei compiti per casa,  ed anche perché non vi era altro posto dove la poveretta potesse sistemarsi. Teresina e Silvana, altre due colleghe avevano trovato un unico locale, piuttosto umido, che fungeva da cucina e stanza da letto. Elda poteva ritenersi fortunata sotto il profilo logistico, ma doveva dividere la stanza con Nara.


Non che la bimba fosse tanto felice di questo! L’ultimo suo pensiero, prima di addormentarsi, era rivolto al risveglio del mattino successivo quando Elda, con le sue mani pesanti e nervose, le avrebbe districato i lunghi capelli, annodati fra loro, con i denti del pettine quasi come un rastrello su di un ciuffo di convolvolo e gramigna falciato a metà.


- Ti faccio male?  - Aveva la premura di chiedere Elda.


Nara sa che deve rispondere di no per non offenderla, e perché la mamma le promette sempre che il giorno seguente sarà lei stessa a pettinarla. Ma Elda vuole darsi da fare per risollevare Beatrice da  quell’incombenza.


A parte questo, l’insegnante è simpatica alla bambina  perché le porta in casa l’ambiente scolastico che è curiosa di conoscere.


- Non puoi frequentare la scuola finché non avrai compiuto i sei anni! – Si difende Elda dalle continue richieste della piccola di esservi ammessa.


La bambina ritorna spesso alla carica, con l’idea fissa  di diventare presto un’alunna. Per rabbonirla la maestra le promette che una volta raggiunta l’età, se ne sarebbe parlato con Teresina, che insegna in prima, e si sarebbe deciso sul da farsi. Naturalmente Elda sperava che la passione di Nara svanisse, nel frattempo.


Nara se ne rimane buona buona, si fa per dire, fino ad una settimana dal suo compleanno. In quel autunno, Gianetto, un elettricista di Taglio di Po sta fornendo tutte le case di Polesinin dell’impianto elettrico ed essendo anche lui ospite presso di loro, Nara è concentrata su quest’ultimo avvenimento. Per non annoiarsi fra le mura di casa, ottiene il permesso di seguire Gianetto in qualche famiglia conosciuta. Nara è abbastanza educata e divertente nella sua spontaneità, così è ben accetta presso le famiglie in cui si svolgono i lavori dove, fra l’altro, trova coetanei con cui giocare, così da essere occupati in giochi infantili evitando d’importunare gli adulti.


Al rientro, suo padre la interrogava divertito su quanti impianti avesse prestato la sua opera quel giorno.





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Piovve molto nel mese di novembre. Piovve tanto da colmare tutti gli affluenti del Po ed il Po stesso, lungo tutto il suo corso. Gli abitanti di Polesinin sono avvezzi alle piene del fiume. Se n’avvedono ben prima che l’ondata arrivi perché i barcaioli, che fanno trasporto di merci, sospendono la navigazione. In quel periodo i barconi vi giungevano saltuariamente, ed Umberto era preoccupato per la sua rivendita di generi alimentari e chincaglierie. Avendo ora la corrente elettrica decide di comprarsi un apparecchio radio per essere più informato su quanto stesse succedendo nel mondo.


Spesso si ritrovano in parecchi attorno alla radio per ascoltare il notiziario. Gli uomini sono perciò più informati, ma anche più allarmati. Non riescono a rendersi esattamente conto della pericolosità della situazione.


Il 14 Novembre 1951, la voce del radiocronista dirama la notizia delle rotte di Occhiobello e Paviole! L’argine ha ceduto in due punti.


Alla notizia, alcuni uomini impallidiscono, altri ammutoliscono, i più sanguigni cominciano a bestemmiare. Beatrice che sta girando la polenta sulla stufa a legna, manda un grido di disperazione e dolore assieme.


- Non bestemmiate! Per carità: non bestemmiate! Che già di disgrazie ne abbiamo


abbastanza, senza cercarne di peggiori!


- Come faremo con queste due creature, si chiede posando gli occhi sulle sue bambine, che una non sa ancora di essere nata e l’altra ha poco più di cinque anni!


- Bisognerà salvare la roba - proposero incerti gli uomini. - Si dovrà portare di sopra tutto quel che ci può stare. -


- Prima di tutto si deve pensare a mettere in salvo le persone - disse infine Beatrice spossata dall’emozione.


Ha rotto ad Occhiobello.  Prima che arrivi qui ce ne vuole! Non disperarti, un po’ di tempo ci rimane - dissero i presenti - costituiti da parenti ed amici cari, scambiando fra loro sguardi sgomenti dai quali  si leggeva: “ Se non  rompe anche più in giù!”


Andremo tutti a fondo, vedrete! - continua la donna in preda al panico. - Chi mai potrà salvarci! Oh povera gente! Oh poveri noi! - ripeteva impaurita. -


Basta! Basta! – esortano gli uomini – Piuttosto, diamoci da fare, perché se restiamo qui imbambolati, con le mani in mano, stiamo apposto!


Si apprestarono a salvare il salvabile ed organizzarono un servizio di ronda sugli argini.





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Le acque inondarono quasi tutta la provincia di Rovigo. A Frassinelle, un camion carico di persone che dovevano raggiungere il centro di raccolta, per un guasto meccanico scivolò dalla strada dell’argine, inabissandosi.   Giungevano notizie terrificanti.


A Polesinin l’alluvione non arrivò. Trovandosi nell’isola di Ariano Polesine quella volta fu salvo. Come si salvò l’isola della Donzella e il territorio situato a destra del Po di Maìstra  fino lungo tutto il fianco sinistro del Po di Pila.


Anche l’isola di Polesine Camerini ne sarebbe rimasta fuori se, per sua sventura, non fosse stata invasa dal mare.





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Gli abitanti di Polesinin aspettarono giorni prima di rimettere a posto le poche suppellettili.  Avrebbero voluto accogliere qualche sfollato, ma le autorità non  lo permisero e poi le condizioni erano forse più favorevoli nei centri di raccolta. Le sole alluvionate erano le tre maestre che in quel luogo già si trovavano per ragioni di lavoro.  L’anno scolastico continuò come previsto. Le vacanze di Natale, per le tre maestrine, trascorsero presso la provvisoria sistemazione delle rispettive famiglie. Con l’animo greve ripresero il loro insegnamento il sette gennaio.


Le giornate passarono, fredde e umide, segnate da una vita grama di disagi  e solitudine.   La preoccupazione sulla sorte di migliaia di persone  si era insediata nell’animo di molti.


Dopo un paio di mesi, la speranza di poter rientrare nelle proprie case, per gli sfollati, si fece più plausibile. Si parlava di aiuti e ricostruzione.


Nara non capiva bene quel che succedeva fuori di Polesinin. Proseguiva con le sue fantasie infantili e siccome era caparbia, non aveva abbandonato il suo progetto scolastico: presto avrebbe compiuto sei anni.* *  *


Il 20 Marzo 1952 Nara si presenta da Teresina con la cartella di cartone marrone, un quaderno a quadretti dalla copertina nera ed il bordo delle pagine rosso, una matita gialla ed una gomma per cancellare bianca: l’occorrente in uso in quei tempi, che la bambina prese da uno scaffale del negozio del padre; negozio simile ad uno “Store” statunitense, in cui si vendeva tutto ciò che abbisognava ai compaesani.


- Guarda, Teresina, ho la cartella pronta e oggi compio sei anni! Domani vi posso seguire, con la mia bici, e venire a scuola con voi!


Teresina non sa a che santi votarsi, presa alla sprovvista dalla determinazione della piccola.


- Non puoi, Nara! Devi aspettare il prossimo anno scolastico! – Disse dolcemente la maestrina che, con quel divieto, non voleva rovinarle il compleanno, né smorzare tanto desiderio di apprendere.


- Sì che posso! Me lo avete promesso ed ora non potete tirarvi indietro! - Le parole  escono con impeto anche se la voce tradisce un leggero tremolio di incertezza e delusione. Ma continua a perorare la sua causa: - Ho dovuto aspettare sei mesi, ed ora mi dite che ne devo aspettarne altri sei: non sarò in ritardo fra sei mesi?


- Purtroppo è così che vuole la legge!


- La legge è un’imbrogliona! Fa perdere tempo!


Nara non vuol sentire ragioni, avverte le maestre che i sei anni sono compiuti e che lei a scuola ci andrà, a tutti i costi! Le maestre si riuniscono in consiglio. Si trovano di fronte una situazione inaspettata e curiosa. Pensano che in tre mesi la ragazzina passa imparare la parte principale del programma perché è sveglia e matura per la sua età. Ma come fare con gli adempimenti amministrativi?


Approfittando degli sconvolgimenti causati dall’alluvione, superano l’ostacolo dichiarando che la richiesta d’iscrizione originale è stata smarrita. La nuova domanda  viene accolta e Nara in tre mesi fa la prima elementare.


Non bisogna credere che tutto quel processo sia stato indolore per l’alunna. Rispetto ai compagni del primo anno, ovviamente lei è svantaggiata. La classe è numerosa e Teresina non riesce a seguire Nara convenientemente. Alla fine di Aprile la spostano in terza nella classe di Elda che, sebbene anche i suoi scolari siano numerosi, avrebbe integrato a casa, nelle ore pomeridiane, l’insegnamento che non poteva impartirle a scuola.


Nara  è promossa alla frequenza della seconda classe elementare.


Il primo giorno del secondo anno fu funestato da un buco grande come un cinque lire, sulla prima pagina del quaderno a righe, prodotto nel tentativo di cancellare una grossa macchia d’inchiostro nera.





* * *





Nella primavera del 1953 Nara incomincia a frequentare la riva sinistra del Po, perché si deve preparare alla prima Comunione.


L’addetto al traghetto, “il passadore”, si chiama Guerrino.


Guerrino, a seconda del carico, imbarca sulla “monsa”, sulla “barcona” o sul “batlin”. E’ un esperto della traversata, conosce tutto ciò che la riguarda: le correnti, i venti, le precipitazioni.


Annusando l’aria a volte esclama: “Fa tempo da piova!”


E’ un barcaiolo le cui membra ben conoscono la forza del fiume, abituate come sono a governare le barche a remi giorno dopo giorno. Egli voga in piedi, alla veneta, a volte con un remo, a volte con due incrociati. Quando la superficie del Po è liscia, Guerrino suona il fiume con il suo “batlin” come un violino ed i remi come archetti, producendo note sommesse. Se il tempo è cattivo e le acque agitate, la musica cambia, ad essa si sovrappongono voci concitate, grida di paura che sono prontamente coperte dalla voce imperiosa dell’uomo che ordina: “Fermi, accucciati, od il vento ci travolgerà!” I ragazzi vengono così responsabilizzati ed indotti alla collaborazione. Diversi coetanei fanno la traversata con Nara, tutti raggiungono la chiesa dove avviene la preparazione al rito religioso.


Il parroco, un omone che mette paura per il suo autoritarismo, a volte tardava, perciò i bambini s’ingegnavano con giochi nel piazzale antistante la chiesa.


Nara predilige il gioco dei “cochi” che altro non sono che tondi sassolini. Il gioco prevede, da seduti a terra, dei lanci in aria di sassolini in sequenze preordinate. Prima che ricadano, si deve toccare con il palmo della mano il suolo e, nel contempo, razzolare i sassi a terra, quindi recuperare quelli in volo. I ragazzi più abili riescono, nella geometrie previste dalle regole e dalla fantasia, a giocare con entrambe le mani, indipendentemente. Spesso scommettono dieci lire di caramelline all’anice o di palline di vetro colorate, reperibili nella bottega presso la chiesa dove, peraltro, c’è il posto telefonico pubblico.


Quel telefono è pretesto di una lezione improvvisata da parte dell’ insegnante di Nara, un giorno  in cui si incontrano per caso.


L’insegnante dimostra un enorme interesse per l’utilizzo della linea telefonica e l’occasione sembra propizia per spiegare alla sua alunna il funzionamento. “E’ come – le disse – tu ti trovassi nella stanza accanto ed io volessi parlarti senza gridare; la voce arriverebbe attraverso la cornetta.”


Nara, con logica stringente, trova la cosa assolutamente assurda e persino ridicola, quella di parlare dentro una cornetta quando, con soli due passi, ci si può parlare di persona. Anzi, di più, comincia a diffidare del maestro che insiste sul prodigio della comunicazione a grandi distanze, per il quale riusciva a parlare con la famiglia lontana. Per la bambina è una cosa astrusa ed incomprensibile: tutto il suo mondo è racchiuso in un raggio di brevi distanze.


Il maestro si dimostra deluso di aver fallito la lezione, ed anche Nara ci rimane male, tanto da prendere  in antipatia quell’apparecchio incomprensibile che, ironia della sorte, si rivelerà, molti anni più tardi, strumento fondamentale del suo lavoro. Verrà assunta, infatti, presso un’azienda telefonica e per lunghi anni metterà in collegamento persone, non solo fra stanze, ma fra nazioni diverse.





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Sicuramente il maestro, per il quale Nara prova troppa soggezione e che insegna malvolentieri in quel posto, fuori dal mondo, dove non si riesce a far capire il progresso, non avrebbe mai potuto immaginare tale destino per la sua alunna.


Nara, totalmente ignara, non si cura né del telefono, né del maestro scontento. Le piace la sua vita che in quel momento prevede il suo rientro a casa, prima con la barca , poi con la sua bici rossa, che comincia ad essere ormai troppo piccola per lei.


La via di casa costeggia il Po che, durante i tramonti estivi, è vestito di calda luce dorata; squarciata qua e là, da istantanei guizzi argentati.


In quegli anni  il fiume era strapopolato di pesci; persino gli storioni risalivano la corrente, in determinati periodi.


Fra una pedalata e l’altra, l’orecchio attento di Nara, registra i suoni che accompagnano la sua corsa. Poteva essere lo splash di un pesce curioso che provava il brivido dell’aria; il cinguettio dei passeri che, a piccoli stormi, prendono il volo con il suo sopraggiungere; il volo planato delle rondini che, dalle sterpaglie della riva, sorvolano rasenti la strada sull’argine per poi calarsi lungo la scarpata, fino ai fossi presso le coltivazioni dove trovano cibo.


A volte, a rompere quest’armonia, giungeva il gregge accompagnato dall’abbaiare dei cani che si prodigano, presso le pecore, per aprire un varco alla bambina in bici.


Gaetano, il pastore, richiama le sue pecore per nome, oppure incita i cani a rincorrere quelle che perdono il branco. “Puoi passare, Nara! Senza temere!” – la rassicurava il pastore -.


Altre volte, Nara, percorreva quella strada canticchiando le canzonette in voga e che imparava per radio come: Marietta monta in gondola, Papaveri e papere, Casetta in Canadà.


I cantanti di quel tempo erano: Natalino Otto e Carla Boni, Nilla Pizzi, Il Duo Fasano, il Quartetto Cetra.





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La prima domenica di Giugno, che coincide con il Corpus Domini, è designata come giorno della Prima Comunione. Seguirà, solo due settimane più avanti, il sacramento della Cresima.


Durante il periodo di istruzione il gruppetto  impara le preghiere più comuni, il catechismo con i dieci comandamenti, i sette sacramenti, i sette vizi capitali, le quattro virtù cardinali e le tre teologali oltre ad alcune norme di diritto canonico. Tutto quanto sarebbe servito per riconoscere il bene dal male, i peccati di cui gli uomini macchiano la propria anima e saper confessarli. I peccati potevano essere veniali o mortali. Questa distinzione mette fortemente in crisi Nara che non sa mai decidersi della categoria dei suoi peccati. Certo se non santifica le feste comandate dal Signore sa riconoscere il peccato mortale, su questo non ha dubbi, come, del resto, su tutti gli altri comandamenti che implicano un’azione. Prova incertezza ed inquietudine nelle trasgressioni dei comandamenti che implicano la mente ed il cuore.


Don Ermenegildo è un omone troppo autoritario e mette paura a Nara, un po’ per la sua corpulenza, un po’ per la sua impazienza ed anche per la sua presunzione. L’ingombrante personalità del sacerdote è un elemento sfavorevole  per il carattere dubitoso  della bambina che  messa a faccia a faccia, nella prima confessione, non sa aprirgli il suo animo con fiducia. Rimane assorta nei suoi dubbi che si altalenano fra l’aver confessato tutto per benino e fra l’essere stata imprecisa: a questo riguardo si sente carica di responsabilità. Sembra che la precisione sia un elemento imprescindibile. L’esattezza del peccato ed il numero delle ricadute nello stesso, per il prete, è una questione di vita eterna o di morte perpetua.


Il giorno della Prima Comunione, Nara vive  ripercussioni funeste sul suo morale, causate dalla inflessibilità di don Ermenegildo che ha esercitato un vero e proprio terrorismo psicologico sul suo animo titubante. E se non si fosse spiegata bene? Sarebbe una sacrilega! Eppure si sente apposto con la sua coscienza!  Avrà la vita eterna o la morte perpetua?  Chi può mai risponderle: sono tutti indaffarati nei festeggiamenti!


 Il giorno della Prima Comunione Nara non si diverte per niente, vorrebbe cancellarlo dalla sua vita.





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La Cresima è un ricordo più lieto perché c’era il Vescovo vestito di bei colori, con la mitra ed il bastone dorati, con lo sguardo magnanimo, proprio come quello del Buon Pastore.


Don Ermenegildo stava ad un passo dal Vescovo, mogio mogio, sottomesso alla sua autorevolezza. Sembrava aver perso volume e consistenza.* * *


Tanta paura ha sempre provato Nara per quell’uomo che in nome del Signore offendeva tutti i suoi parrocchiani, soprattutto le ragazze che procreavano prima del matrimonio.  Le aveva insegnato che Dio parlava al popolo della Chiesa attraverso i suoi ministri  e che anche i sacerdoti erano dei ministri di Dio, così Nara credeva a tutto quello che lui diceva e riteneva giusto il suo inveire affinché si diventasse dei buoni cristiani, figli di Dio. Voleva assolutamente appartenere alla famiglia del Signore anche se lo sentiva un padre troppo oppressivo.


Il giorno di Pasqua si reca, con  suo padre, alla Messa solenne delle dieci. Il papà, come tanti altri uomini, non è un frequentatore abituale, va in chiesa solo nelle grandi festività. La chiesa è gremita e don Ermenegildo non perde occasione di scatenare innumerevoli invettive contro gli intervenuti.


- Comunisti, non dovreste varcare la soglia del tempio di Dio!- Uomini di poca fede, a che vi serve osannare il Signore solo a Pasqua ed a Natale? Statevene a casa! La vostra presenza, in questo giorno di Risurrezione è un insulto al Signore! E poi continuava con


- Farisei, sepolcri imbiancati! Con il vostro comportamento, ancor oggi, mettete Cristo in croce!


Finalmente la predica volge al termine fra il silenzio degli astanti. Qualcuno dissentì con cenni sconsolati del capo. Il celebrante andò all’altare, congiunse le mani in raccoglimento davanti al tabernacolo, poi si girò, aprì le braccia  e  -   Dominum vobiscum - disse rivolto ai fedeli. - Et cum spiritu tuo - si levò alta la voce dei presenti… Ad onor del vero, alcuni risposero al prete con un leggero sogghigno, - Nara se ne accorse - ma  il celebrante era lontano e continuando il rito - Oremus - pronunciò ricongiungendo le mani e rivolgendosi di nuovo al tabernacolo. Nello stesso preciso istante, il crocefisso ligneo, che dominava  il presbiterio dalla sommità del tabernacolo, si stacca, cadendo d’un colpo pesante e deciso sulla testa di don Ermenegildo, come se Gesù Crocefisso avesse voluto dirgli: - Mah! Come ti permetti, zuccone!


In seguito a quell’evento Nara comprese in modo chiaro e definitivo che don Ermenegildo e Gesù Cristo, erano due entità totalmente separate.